Il lavoro a chiamata – Corte di Giustizia UE – Legittimità della normativa.
Con una sentenza del 19 luglio 2017, la Corte di Giustizia UE è intervenuta a dirimere una questione pregiudiziale, sottopostale dalla Corte di Cassazione italiana in materia di lavoro a chiamata o intermittente, attualmente disciplinato dagli art. 13 e seguenti del D.lgs. 81/2015.
Nello specifico, la questione riguardava un giovane lavoratore italiano che nel 2010, non ancora venticinquenne, era stato assunto con contratto di lavoro a chiamata da una famosa azienda di moda, per poi essere licenziato automaticamente, qualche anno dopo, al compimento del venticinquesimo anno, per il solo motivo legato al superamento del limite anagrafico previsto dalla normativa italiana per il “job on call”, ovvero per il lavoro a chiamata (all’epoca dei fatti, si faceva riferimento all’art. 34 del D.lgs. 276/2003, il quale prevedeva che le prestazioni dovessero essere “svolte entro il venticinquesimo anno di età”).
Il lavoratore, impugnato il licenziamento, aveva ottenuto in secondo grado la reintegrazione nel posto di lavoro, in quanto il recesso veniva considerato discriminatorio, alla luce della normativa comunitaria.
Successivamente, la controversia giungeva all’esame della Cassazione, la quale a sua volta sottoponeva alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale relativa al possibile contrasto della normativa italiana con il principio di non discriminazione basata sull’età, sancito a livello europeo dalla Carta dei Diritti fondamentali e dalla Direttiva Ue 2000/78, dal momento che la legge interna permetteva al datore di lavoro di concludere un contratto con un soggetto e di licenziarlo al raggiungimento di una determinata età.
La Corte europea, investita della questione, ha confermato la legittimità della normativa italiana sul lavoro intermittente – ed in particolare la disposizione specifica che, anche oggi, ammette l’assunzione con questa tipologia contrattuale di lavoratori aventi determinati requisiti anagrafici – ed ha, altresì, riconosciuto la legittimità del licenziamento, non ritenendo sussistente alcuna effettiva discriminazione.
Secondo la Corte, infatti, sebbene la disposizione di legge italiana realizzi di fatto una disparità di trattamento fondata sul dato anagrafico, tuttavia essa non risulta avere una natura discriminatoria, bensì risulta giustificata in quanto persegue una finalità legittima di politica del lavoro.
Mediante l’introduzione di forme contrattuali meno rigide, infatti, si intende conferire maggiore flessibilità al mercato del lavoro e favorire l’occupazione giovanile offrendo a questi lavoratori una prima esperienza professionale; al contempo, le aziende vengono incentivate ad assumere giovani lavoratori, utilizzando uno strumento contrattuale meno vincolante.