Il datore di lavoro può trattenere delle somme come risarcimento del danno?
La recente giurisprudenza della Cassazione ha confermato la tradizionale distinzione tra compensazione propria ed impropria. La prima, quella disciplinata dagli art. 1241 e ss., presuppone che i rapporti giuridici, da cui nascono i reciproci rapporti di credito, siano distinti ed autonomi, mentre la seconda richiede l’unicità del rapporto (v. Cassazione (Sez. I 25 agosto 2006, n. 29769).
In mancanza del carattere dell’autonomia, è configurabile soltanto la c.d. compensazione impropria o a-tecnica, in base alla quale la valutazione delle reciproche pretese comporta soltanto un semplice accertamento contabile di dare ed avere, con un’elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza (cfr., per tutte, Cass. n. 7337/2004 e n. 5024/2009).
Tuttavia, la compensazione a-tecnica non può essere utilizzata per dare ingresso ad una sorta di “compensazione di fatto”, sganciata da ogni limite previsto dalla disciplina codicistica, in quanto la peculiarità della compensazione a-tecnica consiste nel fatto di rendere possibile la compensazione tra crediti che non siano tra loro autonomi, ma deve pur sempre trattarsi di crediti per i quali ricorrano i requisiti di cui all’art. 1243 cod. civ. e, cioè, che si tratti, da ambedue i lati, di crediti certi, liquidi ed esigibili (cfr. Cass., n. 10629/2006).
In linea generale quindi, non sussistono i necessari presupposti per l’operatività della compensazione il tra i crediti del lavoratore e quelli asseriti del datore di lavoro, posto che questi ultimi non possono considerarsi né certo né liquido, dipendendo la loro esistenza e la loro quantificazione – con specifico riguardo all’operato del dipendente – dall’esito di un giudizio (cfr., ex plurimis, Corte di Cassazione – Sez. Lav., sentenza n. 1695, del 29 gennaio 2015; Cass., n. 8338/2011).