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Licenziamento collettivo, nozione di stabilimento e calcolo dei lavoratori

La sentenza che si commenta sancisce i criteri di interpretazione di alcune disposizioni normative della Direttiva 98/59/CE in materia di licenziamenti collettivi.
Il contenzioso in Inghilterra che ha originato il giudizio comunitario
La vicenda trae origine da un consistente piano di riduzione del personale attuato da Woolworths e da Ethel Austin, imprese leader nel settore della grande distribuzione su tutto il territorio del Regno Unito.
All’esito di tale procedura, che ha coinvolto migliaia di lavoratori distribuiti in svariati punti vendita sul territorio inglese, è stato proposto ricorso avanti alla competente autorità giudiziaria locale per ottenere la tutela risarcitoria prevista dall’ordinamento inglese.
Il Giudice di primo grado ha concesso l’indennità solo ad alcuni dipendenti, negandola, invece, a circa 4.500 altri lavoratori, ritenendo per costoro non sussistenti i presupposti legislativi per accedere al risarcimento, in quanto la riduzione del personale era intervenuta nell’ambito di unità aziendali interessate da un numero di licenziamenti inferiori alle 20 unità.
La Corte di Appello di Inghilterra e Galles, adìta per la riforma di questa decisione, ha sospeso il procedimento ed ha rinviato la causa alla Corte di Giustizia Europea ravvisando profili di possibile incompatibilità tra la normativa inglese in materia di licenziamenti collettivi e le corrispondenti sovraordinate disposizioni normative di rango comunitario.
La normativa comunitaria di riferimento al vaglio
della Corte di Giustizia
Le norme comunitarie invocate dalla Corte di Appello inglese in sede di rinvio vanno rinvenute nella Direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998 concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi (la “Direttiva”).
La Direttiva scandisce e definisce il contenuto degli obblighi di informazione e consultazione che i datori di lavoro devono obbligatoriamente adempiere prima di procedere ad un licenziamento collettivo, nonché individua i requisiti generali in presenza dei quali ricorre la specifica fattispecie del licenziamento per riduzione del personale.
L’analisi delle questioni affrontate dalla Corte di Giustizia nella sentenza in epigrafe verte sullo specifico aspetto del campo di applicazione della Direttiva, ai sensi della quale la nozione di «licenziamento collettivo» si riferisce, tra l’altro, ad «ogni licenziamento effettuato da un datore di lavoro per uno o più motivi non inerenti alla persona del lavoratore se il numero dei licenziamenti effettuati è […] per un periodo di 90 giorni, almeno pari a 20, indipendentemente dal numero di lavoratori abitualmente occupati negli stabilimenti interessati» (art. 1, paragrafo 1, lett. a) ii) della Direttiva).
Sul punto, la Corte di Appello inglese ha sollevato avanti alla Corte di Giustizia Europea due questioni pregiudiziali che vengono singolarmente di seguito esaminate, mettendo i concetti così elaborati in relazione con le specifiche previsioni della normativa interna italiana.
La prima questione pregiudiziale: la nozione comunitaria di “stabilimento”
Con la prima questione pregiudiziale, il Giudice a quo ha chiesto alla Corte di Giustizia di precisare se il termine «stabilimento» (art. 1, paragrafo 1, lett. a) ii) della Direttiva) vada riferito all’intera impresa interessata dal licenziamento collettivo, quale unica entità economica, oppure a quella specifica parte dell’impresa in cui si preveda di effettuare gli ipotizzati licenziamenti (ad esempio, ciascun singolo negozio).
La Corte di Giustizia rileva che la nozione di «stabilimento», non espressamente disciplinata dalla Direttiva, è già stata oggetto a livello comunitario di una articolata elaborazione giurisprudenziale, alla quale occorre fare riferimento per affrontare la prima questione pregiudiziale. A tale proposito, le riflessioni della giurisprudenza comunitaria muovono dall’esigenza che le diverse legislazioni degli Stati membri recepiscano il diritto comunitario interpretando la nozione di «stabilimento» in maniera omogenea, avuto riguardo al precipuo obiettivo della Direttiva, scolpito nei suoi primi “considerando”, di rafforzare la tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi 1.
Precedenti decisioni della Corte di Giustizia hanno definito, in questo senso, il contenuto del concetto di «stabilimento»:
in positivo, identificando il medesimo quale “entità distinta” nel più ampio contesto dell’impresa, con caratteristiche di permanenza e di stabilità, nonché capacità di effettuare una o più operazioni potendo, a tale scopo, disporre di una propria struttura organizzativa, composta di uomini e di strumenti tecnici 2;
in negativo, non ritenendo necessari ai fini della sussistenza di uno «stabilimento» nel senso indicato dalla Direttiva, né una autonomia giuridica o finanziaria 3, né la presenza in tale entità di una direzione con autonomi poteri di deliberare l’adozione di licenziamenti collettivi 4.
A tale stregua, come afferma nelle proprie motivazioni la sentenza in commento sulla scorta dei principi della richiamata giurisprudenza, la fattispecie astratta di «stabilimento» di cui all’art. 1 della Direttiva può essere in concreto integrata da ciascuna delle entità dell’impresa, a condizione che presentino singolarmente i sopra descritti presupposti di permanenza, di autonomia e di stabilità.
Si legge al riguardo nelle motivazioni della sentenza che, «qualora un'”impresa” comprenda più entità che soddisfano i criteri precisati ai punti […] della presente sentenza, è l’entità cui i lavoratori colpiti da licenziamento sono addetti per lo svolgimento delle loro mansioni a costituire lo “stabilimento” ai sensi dell’art. 1, paragrafo 1, primo comma, lett. a), della Direttiva 98/59»5.
Tale conclusione è stata sostanzialmente confermata dalla recentissima sentenza del 13 maggio 2015, C-392/13 (Cañas), nella quale la Corte di Giustizia, affrontando talune questioni pregiudiziali sollevate dal giudice a quo spagnolo in merito all’interpretazione della Direttiva 98/59, ha espressamente richiamato la nozione di «stabilimento» definita nella sentenza del 30 aprile 2015, facendo riferimento, tra l’altro, alle medesime pronunce della giurisprudenza comunitaria sopra richiamata.
La nozione italiana di “unità produttiva”
Nella normativa italiana che si occupa dei licenziamenti collettivi (L. 23 luglio 1991, n. 223) il termine “stabilimento” non c’è ed al suo posto è utilizzata la nozione di «unità produttiva».
Ai sensi dell’art. 24, Legge 23 luglio 1991, n. 223, in particolare, la procedura di informazione e consultazione prodromica ad un licenziamento collettivo trova applicazione alle imprese che occupino più di quindici dipendenti, compresi i dirigenti, le quali, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare (ed è questo il passaggio di interesse ai fini del presente commento) «almeno cinque licenziamenti nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia».
Come nell’ordinamento comunitario, anche nel diritto italiano si è posto il problema della mancanza di una definizione legale di «unità produttiva», sicché l’interprete deve risalirvi attraverso l’elaborazione giurisprudenziale nazionale, non dissimile, nei relativi approdi, dalle conclusioni offerte dalla giurisprudenza comunitaria.
Uno spunto significativo è offerto da una decisione della Consulta sul testo dell’art. 35 dello Statuto dei Lavoratori, nella versione originaria antecedente alla modifica apportata dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, nella quale era fissata la disciplina dei livelli occupazionali ai fini dell’applicazione dell’art. 18, Stat. Lav., con letterale riferimento ai dipendenti dislocati in ciascuna «unità produttiva»6. Con argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle utilizzate dalla Corte di Giustizia con riferimento alla nozione comunitaria di «stabilimento», la Corte Costituzionale ha identificato il tratto distintivo dell’«unità produttiva», da intendersi quale porzione delle più ampia articolazione organizzativa aziendale dell’imprenditore, nella sua attitudine a realizzare compiutamente ed autonomamente uno degli essenziali segmenti costitutivi del complessivo ciclo produttivo aziendale. Si legge, a questo proposito, nella sentenza che «sembra essere stata intenzione del legislatore di dare così giuridico rilievo […] ai fini del licenziamento all’unità produttiva distinta dalla complessa organizzazione imprenditoriale, nel cui ambito essa si delinea con carattere di autonomia, così dal punto di vista economico strutturale, come da quello finalistico e dal risultato produttivo, nella più vasta area del mercato dei beni e dei servizi»7.
Nel solco tracciato dal Giudice delle leggi 8 si ascrive un successivo orientamento della giurisprudenza di legittimità che, nella definizione dei requisiti sostanziali di una genuina «unità produttiva» ai fini dell’applicazione della tutela reale in caso di licenziamento individuale, mentre ha attribuito rilevanza decisiva alla sussistenza di indipendenza ed autonomia tecnica tali da integrare un momento essenziale nell’attività produttiva aziendale, ha viceversa negato la sussistenza di un’unità produttiva in relazione alle articolazioni aziendali che, sebbene dotate di una autonomia amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a funzioni ausiliarie rispetto ai generali fini dell’impresa 9.
A conclusioni sostanzialmente coincidenti è pervenuta la giurisprudenza che si è espressa nel diverso contesto della disciplina del licenziamento collettivo, nella quale la nozione di «unità produttiva» ? di cui vengono ribaditi i connotati di autonomia funzionale nel più ampio contesto produttivo dell’imprenditore, come mutuati dalla richiamata interpretazione giurisprudenziale della nozione di unità produttiva di cui all’art. 35, Stat. Lav. ? assume rilievo, a monte, ai fini della stessa definizione dell’ambito di applicazione degli obblighi di informazione e consultazione prodromici ad un licenziamento collettivo. Si legge a questo proposito in una sentenza di legittimità che «certamente, l’identificazione dell’unità produttiva costituisce, ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 24, il presupposto della qualificazione del licenziamento come collettivo per riduzione di personale, determinante altresì le modalità del procedimento disciplinato dell’art. 4, della stessa legge e l’individuazione dei destinatari del recesso ai sensi dell’art. 5.
Ma ciò implica necessariamente la ricorrenza degli elementi costitutivi della fattispecie “unità produttiva”, ai sensi dell’art. 35 st. lav., unità che la giurisprudenza della Corte definisce come la più consistente e vasta entità aziendale (rispetto alle sedi, stabilimenti, filiali, uffici), che, eventualmente articolata in organismi minori, si caratterizza per sostanziali condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica ed amministrativa, tali che in essa si esaurisce per intero, o per una parte rilevante, il ciclo produttivo dell’impresa»10.
La seconda questione pregiudiziale:
la distribuzione geografica dei lavoratori licenziandi
nel diritto comunitario
Con la seconda questione pregiudiziale il Giudice a quo inglese ha sostanzialmente domandato alla Corte di Giustizia se, ai fini del computo dei 20 dipendenti licenziandi nell’arco di 90 giorni contemplato dal citato art. 1 della Direttiva, possano essere sommati i licenziamenti programmati in stabilimenti diversi nell’ambito della complessiva organizzazione aziendale oppure se, diversamente, occorra fare riferimento al numero di licenziamenti effettuati in ciascun singolo stabilimento.
La Corte di Giustizia risponde al quesito affermando che il riferimento deve essere effettuato al singolo stabilimento, qualora dotato di una sua autonomia funzionale e organizzativa nei limiti e secondo le caratteristiche precedentemente esaminati al terzo paragrafo del presente articolo.
Fra le altre argomentazioni sul punto, la Corte di Giustizia osserva che un’interpretazione estensiva della predetta norma comunitaria riferita alla somma dei licenziamenti in stabilimenti diversi porterebbe al paradosso per cui rientrerebbe nell’ambito di applicazione della Direttiva il licenziamento di un solo lavoratore impiegato in uno stabilimento dell’impresa, anche se isolato dagli altri stabilimenti interessati dalla riduzione del personale. Tale esito applicativo si porrebbe in conflitto con quello che, secondo le parole utilizzate dalla Corte di Giustizia costituisce la «nozione di “licenziamento collettivo” nel senso abituale di tale espressione».
A tale stregua, sulla scorta della nozione di “stabilimento” offerta nella soluzione della prima questione pregiudiziale, la Corte di Giustizia scioglie la seconda questione pregiudiziale, affermando che il richiamato art. 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a)ii) della Direttiva deve interpretarsi nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale che, pur prevedendo l’obbligo di informazione e di consultazione in caso di licenziamento di almeno 20 lavoratori in un periodo di 90 giorni, non estenda tale obbligo laddove il numero complessivo di 20 licenziamenti sia raggiunto sommando i recessi datoriali intervenuti in tutti o in taluni stabilimenti dell’impresa.
Da questo principio discende il corollario per cui è legittimo che nell’ambito di una procedura di riduzione del personale, che abbia coinvolto ben più di 20 lavoratori nell’arco di 90 giorni, solo ad alcuni lavoratori – quelli impiegati in stabilimenti dove la riduzione del personale ha interessato almeno 20 unità – sia stata applicata la procedura collettiva, mentre nei confronti di altri lavoratori – quelli impiegati in stabilimenti nei quali il numero dei licenziamenti è stato inferiore alle 20 unità – siano stati adottati meri licenziamenti individuali.
La distribuzione geografica dei lavoratori licenziandi nel diritto italiano
Passando alla normativa italiana, occorre premettere che, ai sensi dell’art. 5 della Direttiva, gli Stati membri sono autorizzati ad introdurre disposizioni normative più favorevoli per i lavoratori.
Di tale facoltà si è avvalso il Legislatore italiano, il quale, nella stesura del testo del già richiamato art. 24, legge n. 223/1991, ha riferito l’ambito di applicazione della procedura di informazione e consultazione prodromica al licenziamento collettivo al datore di lavoro che intenda effettuare «almeno cinque licenziamenti» (soglia molto più bassa di quella di 20 licenziamenti previsto dalla Direttiva) nell’arco di «centoventi giorni» (termine temporale più esteso di quello di 90 giorni previsto dalla medesima Direttiva).
A tale riguardo merita osservare che, sempre ai sensi dell’art. 24, legge n. 223/1991, l’ambito geografico di riferimento (a cui riferire i 5 licenziamenti in 120 giorni) è espressamente circoscritto alla singola unità produttiva ovvero, in alternativa, a più unità produttive dislocate nell’ambito del territorio della medesima provincia.
In relazione a tale specifico aspetto della disposizione italiana, un precedente della giurisprudenza di legittimità ha formulato argomentazioni analoghe a quelle articolate dalla Corte di Giustizia nel risolvere la seconda questione pregiudiziale, rimarcando la necessità, ai fini dell’operatività dell’art. 24, legge n. 223/1991, di un “livello minimo di concentrazione geografica”, in assenza del quale non si può parlare di un licenziamento “collettivo”. Si legge a tale riguardo nella sentenza della Cassazione che «la formulazione della norma è di chiarezza e precisione tali da far ritenere non consentita una sua interpretazione che porti ad affermare l’applicabilità dell’approntata disciplina di tutela ad ipotesi in cui i licenziamenti non raggiungano la soglia minima di cinque nel detto ambito territoriale, come pure a considerare collettivi i licenziamenti (complessivamente superiori a cinque) intimati da una stessa impresa in ambito regionale o nazionale solo perché tra loro causalmente connessi»11.
Conclusioni
La Corte di Giustizia, sulla scorta delle argomentazioni che abbiamo esaminato, ha rimesso la causa al giudice a quo inglese, ordinando di verificare che le unità nelle quali erano avvenuti i licenziamenti controversi costituissero effettivamente uno «stabilimento» separato, autonomo e permanente nel senso precisato dalla giurisprudenza comunitaria.
La decisione della Corte di Giustizia costituisce indubbiamente un utile spunto di riflessione a conferma degli approdi cui è giunta la giurisprudenza nazionale con riferimento alla nozione di «unità produttiva» rilevante, tra l’altro, ai fini dell’applicazione della procedura collettiva di riduzione del personale e con riguardo all’apparato sanzionatorio previsto dall’art. 18, Stat. Lav. 12
Si può correttamente concludere che l’interpretazione accolta dalla giurisprudenza nazionale con riferimento all’ambito di estensione dell’unità produttiva funzionalmente autonoma, da valutare nel più ampio contesto del complessivo perimetro aziendale, non si discosti dalle considerazioni proposte dal giudice comunitario con riferimento alla nozione di stabilimento, anch’essa rapportata al più generale ambito dell’intera impresa.

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