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Licenziamento del disabile: discriminazione indiretta e reintegra

Licenziamento del disabile – licenziamento per superamento del periodo di comporto – nullità del licenziamento – discriminazione indiretta – reintegra nel luogo di lavoro.

Il lavoratore disabile era rimasto assente per malattia dal posto di lavoro per un periodo superiore alla durata del periodo di comporto previsto dal ccnl applicato: tale circostanza spinse la società a risolvere il rapporto lavorativo mediante il licenziamento del dipendente per l’intervenuto superamento del comporto.

Impugnato il licenziamento con ricorso ex art. 1, c. 47 L. 92/2012, il lavoratore ne invocava la nullità ai sensi dell’art. 18, c.1 L. 300/1970 sostenendo che l’applicazione del medesimo termine di comporto anche ai lavoratori disabili è da considerarsi discriminatoria, stante la maggiore esposizione al rischio di accumulare assenze per malattia (e, di conseguenza, al superamento del periodo) del soggetto disabile.

Nel definire ciò che costituisce “comportamento discriminatorio”, l’art. 2 D.Lgs. 216/2003 – decreto recante “Attuazione della direttiva n.2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro” – distingue tra atti di:

  • discriminazione diretta à “quando per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”;
  • discriminazione indiretta à “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”, ovverosia quando un medesimo trattamento viene riservato a soggetti che si trovano in situazioni diverse.

AI fini della determinazione e della corretta interpretazione della disciplina anti-discriminatoria di cui al D.Lgs. 216/2003, naturalmente, molta importanza assume la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte di Giustizia UE, la quale ha avuto un ruolo decisivo per la soluzione del caso de quo.

Il Tribunale di Milano, infatti, ha deciso la controversia effettuando un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2110 cc e, sulla scorta di quanto precisato dalla giurisprudenza comunitaria, ha sancito che la previsione di un periodo di comporto, la cui quantificazione prescinda tout court dalla “disabilità” del lavoratore, configuri un’ipotesi di “discriminazione indiretta” a norma del D.Lgs. 216/2003 (e della direttiva 2000/78/CE).

E difatti, la violazione del principio di parità di trattamento (che trova una prima copertura a livello costituzionale ai sensi dell’art. 3 Cost.) si realizzerebbe altresì quando una circostanza apparentemente “neutra”, come il periodo di comporto, non prevede meccanismi di adattamento in presenza di situazioni peculiari, quale è appunto la disabilità.

Il lavoratore disabile sarebbe, invero, maggiormente esposto al rischio di accumulare assenze dal lavoro, a causa dal suo handicap: questi sarebbe, pertanto, svantaggiato (rectius, discriminato indirettamente) nel caso gli fosse applicato un periodo di comporto analogo a quello previsto per un soggetto privo di disabilità.

Rispetto agli oneri probatori, il lavoratore disabile licenziato per superamento del comporto può invocare la natura discriminatoria del recesso avvalendosi dello speciale regime di prova presuntivo e alleggerito di cui all’art. 28 D.Lgs. 150/2011; viceversa, il datore di lavoro dovrà provare che l’intero periodo di assenza computato ai fini dell’art. 2110, c. 2 cc fosse assolutamente indipendente dall’handicap del proprio dipendente, dimostrando ove possibile di aver adottato tutte le misure idonee a ovviare agli svantaggi derivanti dalla condizione di disabilità.

Alla luce delle considerazioni esposte, il Giudice ha dichiarato la nullità ai sensi dell’art. 18, c.1 L. 300/1970 del licenziamento intimato al lavoratore, disponendone la reintegra e condannando la società a pagare un’indennità risarcitoria.

Trib. Milano, 28 ottobre 2016, n. 2875/2016.

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