La Suprema Corte di Cassazione affronta la fattispecie del licenziamento per giusta causa, presupposto su addebiti provati e idonei a legittimare la sanzione espulsiva, ma intimato – presuntamente – oltre il termine previsto dal CCNL applicato al rapporto
La comunicazione del provvedimento di licenziamento, entro il termine previsto dal CCNL, rileva sotto il profilo della “tempestività” della stessa, alla stregua della previsione collettiva che fa riferimento all’art. 7 L. 300/1970 e in relazione alla quale deve ritenersi la completa equiparazione tra tardività della contestazione e tardività della irrogazione della sanzione espulsiva
Cass. Sez. Lav. 13 ottobre 2021, ord. 27935
Con l’ordinanza numero 27935, pubblicata il 13 ottobre 2021, la Corte di Cassazione si pronuncia nel merito di una vicenda del tutto particolare e che, nonostante non rappresenti occasione di articolate ricostruzioni giuridiche ovvero luogo per esprimere rilevanti “principi di diritto”, fornisce spunti di riflessione circa la “plasticità” nonché adeguatezza dei nuovi quadri regolatori (intendendo per tali l’art. 18, post riforma “Fornero”, tanto quanto le c.d. “Tutele Crescenti”, ex D.Lgs. 23/2015) di controllo sull’esercizio del potere di licenziamento, attribuito al datore di lavoro.
In particolare, dalla sentenza in commento emergono, ancora una volta, tutte le difficoltà applicative rispetto a discipline, come quelle summenzionate, che prevedono una moltitudine di “moduli” sanzionatori/risarcitori, da applicare a seconda di una “gradazione”, non puntualmente tipizzata e niente affatto esaustiva delle possibili fattispecie concrete, della illegittimità dell’atto di recesso.
Il giudizio di merito: aspetti rilevanti
Attingendo dalla sintesi della fase di merito riportata in pronuncia, si evincono i tratti essenziali della vicenda ossia di un licenziamento, ex art. 2219 c.c., dichiarato illegittimo esclusivamente «sulla considerazione che il recesso datoriale era stato comunicato decorso il termine di 30 giorni dalla presentazione delle deduzioni da parte del lavoratore, in violazione di quanto prescritto dal c.c.n.l. di categoria» ovvero quello relativo al personale non medico dipendente da case di cura private e centri di riabilitazione aderenti all’AIOP, ARIS e Fondazione Don Gnocchi, del 19 gennaio 2005 e s.m.i..
Nella prima fase, in rito “Fornero”, veniva confermata la condanna della società alla reintegrazione del lavoratore e al pagamento, in suo favore, di una indennità risarcitoria pari all’ultima retribuzione globale di fatto percepita, dalla data del licenziamento e fino a quella di effettiva riammissione in servizio, comunque in misura non superiore a 12 mensilità, oltre al versamento della correlata contribuzione.
In sostanza, la giurisdizione di prima istanza riteneva applicabile alla fattispecie in esame la disciplina di cui al comma 4 dell’articolo 18, riservata, espressamente, alle ipotesi in cui si «accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» oltreché, ai sensi del comma 7, nell’ipotesi in cui si rilevi «il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile [ovvero] nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».
Tuttavia, in appello, probabilmente anche in ragione della non perfetta riconducibilità del caso di specie alle ipotesi suddette e tipicamente elencate dalla disposizione, «il giudice del reclamo, ritenuti provati i fatti contestati (consistenti nella commissione, in danno dell’azienda, di plurimi reati quali peculato, furto aggravato, appropriazione indebita e truffa aggravata e nel reiterato allontanamento, senza autorizzazione, dal posto di lavoro) e proporzionata la sanzione», riteneva applicabile la differente disciplina, meramente indennitaria, compresa tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità, di cui al comma 6 dell’articolo 18.
Espressamente, i motivi a fondamento del decisum risiedevano nell’esclusa natura “decadenziale” del termine previsto, dalla clausola collettiva[1], per “adottare” il provvedimento espulsivo.
In particolare, sul punto, la necessaria esegesi della “comune intenzione” delle parti – sociali – stipulanti il contratto – collettivo – (art. 1362 c.c.), induceva il collegio a ritenere equivoca l’espressione “adozione”, utilizzata testualmente e perciò non necessariamente corrispondente alla “comunicazione” dell’atto di recesso, di guisa che, «la mancata comunicazione del provvedimento di licenziamento entro il termine di 30 giorni rilevava, quindi, sotto il diverso profilo di difetto della tempestività della stessa, alla stregua della previsione collettiva che faceva riferimento all’art. 7 l. n. 300 del 1970, ed in relazione alla quale doveva ritenersi la completa equiparazione tra tardività nella contestazione degli addebiti e tardività della irrogazione della sanzione».
Conclusioni
In sostanza, non ravvisando la “perentorietà” del limite temporale espresso dalla disciplina collettiva, tale da realizzare, in favore del prestatore, quella fictio iuris dell’intervenuta accettazione delle giustificazioni o di archiviazione del procedimento[2], i giudici dell’appello propendevano per una “soluzione” interpretativa poggiata sull’analogia giuridica fra la “tempestività” dell’atto di contestazione, sì postulata dall’art. 7 dello Statuto[3] e la “tempestività” di fonte contrattuale, attribuendo anche al difetto di quest’ultima il valore di vizio funzionale, sussumibile nella fattispecie legale sanzionatoria di cui al comma 6.