Risarcimento del danno per licenziamento illegittimo
Cass., sez. lav., 13 gennaio 2015, n. 345
Nel caso di specie, a seguito dell’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore, il giudice di primo grado ne ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro. Successivamente, il lavoratore accettava la proposta conciliativa economica formulatagli dal datore di lavoro e, pertanto, rinunciava alla predetta reintegrazione. Veniva dunque promosso dal lavoratore un giudizio avente ad oggetto una domanda di accertamento della sussistenza del danno esistenziale e una di accertamento della sussistenza del danno biologico in capo allo stesso, dipendenti dal licenziamento illegittimo, che si concludeva in primo grado con l’accoglimento della prima domanda e il rigetto della seconda. La Corte territoriale adita confermava la predetta decisione del giudice di prime cure, affermando che la prova della sussistenza del suddetto danno esistenziale, così come la congruità della sua liquidazione equitativa, compiuta nel primo grado di giudizio, era stata correttamente valutata dal giudice di prime cure in considerazione delle ripercussioni negative che il licenziamento illegittimo intimato al lavoratore aveva avuto sulle sue abitudini di vita (sia sotto il profilo del conseguente stato di disoccupazione, sia dal punto di vista degli effetti sulle relazioni interpersonali) e sulla sua situazione reddituale; in particolare, secondo la Corte d’Appello adita in assenza di elementi attestanti l’impossibilità del lavoratore, riconducibile al licenziamento intimatogli, di soddisfare le sue ordinarie esigenze quotidiane di vita, doveva ritenersi corretta la liquidazione equitativa del danno esistenziale individuata dal giudice di primo grado nella misura del 10% delle somme corrisposte al lavoratore medesimo in occasione della predetta conciliazione, dividendo l’importo convenuto per il numero di mensilità di retribuzione cui il lavoratore aveva rinunciato. Ciò in quanto, come rilevato dalla Corte territoriale adita, erano da escludersi nel caso di specie ripercussioni di natura patrimoniale, stante l’accertata situazione patrimoniale del lavoratore, con valutazione positiva del criterio adottato dal Giudice di primo grado, giudicato plausibile a fronte di una liquidazione equitativa, in riferimento alla sfera della personalità del lavoratore vittima di licenziamento illegittimo e dei riflessi della perdita del posto di lavoro sulla sua condizione di vita quotidiana e dello stato delle sue relazioni personali. La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso presentato dal lavoratore avverso la predetta decisione di merito e, in particolare, in relazione al parametro equitativo utilizzato dal Giudice adito per la liquidazione del danno, afferma con la sentenza in commento che l’unica possibile forma di liquidazione di ogni danno privo delle caratteristiche della patrimonialità, come è il caso del danno esistenziale, è quella equitativa, essendo il ricorso a questo criterio insito nella natura di tale danno e nella funzione del risarcimento mediante la dazione di una somma di denaro; tale somma non è, infatti, reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, bensì compensativa di un pregiudizio non economico. Pertanto, secondo la Suprema Corte, il giudice del merito non può farsi carico di indicare quali ragioni hanno determinato il fatto che il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare, circostanza questa che costituisce la condizione per il ricorso alla valutazione equitativa prevista dall’art. 1226 c.c. Una precisa quantificazione pecuniaria è possibile, infatti, solo qualora esistano parametri normativi fissi di commutazione, in difetto dei quali il danno non patrimoniale non può mai essere provato nel suo preciso ammontare. Tuttavia, rimane fermo il dovere del giudice del merito di dar conto delle circostanze di fatto considerate nel compimento della valutazione equitativa e del percorso logico che ha determinato il risultato finale della liquidazione; a tale ultimo fine il giudice deve considerare tutte le circostanze del caso concreto e, specificamente, l’attività espletata dal lavoratore, le condizioni sociali e familiari del danneggiato, la gravità delle lesioni e degli eventuali postumi permanenti (cfr. in tal senso Cass., 12 maggio 2006, n. 11039 e Cass., 20 ottobre 2005, n. 20320). In ragione di quanto precede, la Corte di Cassazione con la pronuncia in esame afferma che correttamente ha operato il Giudice del merito ove, nella determinazione della somma da liquidare al lavoratore a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale di cui è stato riconosciuto vittima, ha tenuto conto della mancanza di una specifica allegazione dei fatti comprovanti così come dell’esistenza stessa e dell’entità del predetto danno esistenziale, che, peraltro, non integra una categoria autonoma di pregiudizio, ma rientra nel danno non patrimoniale. Pertanto, conclude la Suprema Corte, il danno esistenziale non può essere liquidato separatamente solo perché diversamente denominato, richiedendosi, nei casi in cui sia risarcibile come danno non patrimoniale, che sussista da parte del lavoratore richiedente l’allegazione degli elementi di fatto dai quali sia possibile desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio (si veda Cass., S.U., 16 febbraio 2009, n. 3677).
(Fonte: Guida al Lavoro del 24 febbraio 2015).