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Licenziamento per superamento del comporto

LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL COMPORTO

“Il lavoratore assente per malattia e impossibilitato a riprendere servizio non ha l’incondizionata facoltà di sostituire alla malattia il godimento di ferie maturate quale titolo della sua assenza, allo scopo di bloccare il decorso del periodo di comporto, ma il datore di lavoro, nell’esercizio del suo diritto alla determinazione del tempo delle ferie, dovendo attenersi alla direttiva dell’armonizzazione delle esigenze aziendali e degli interessi del datore di lavoro (art. 2109 c.c.), è tenuto, in presenza di una richiesta del lavoratore di imputare a ferie un’assenza per malattia, a prendere in debita considerazione il fondamentale interesse del richiedente ad evitare la perdita del posto di lavoro a seguito della scadenza del periodo di comporto (con l’onere, in caso di mancato accoglimento della richiesta, di spiegarne i motivi)”

Così ha statuito la Corte di Cassazione con la sentenza del 2 luglio 2015, n. 13645, intervenendo in tema di licenziamento per superamento del comporto.
Nella vicenda la Suprema Corte ha cassato la sentenza della Corte d’Appello di Roma che aveva respinto la domanda proposta da un ricorrente di impugnazione del licenziamento intimato per superamento del comporto. Il ricorrente rilevava che dopo aver inviato un certificato medico per un determinato giorno di malattia, aveva chiesto di imputare tale giorno a ferie anziché a malattia. Sul punto, la Corte d’Appello aveva ritenuto che l’invio del certificato medico dimostrava la volontà della lavoratrice di giustificare la propria assenza con la malattia e non già di imputarla a ferie; inoltre, l’invio di un successivo certificato medico, con cui il lavoratore aveva corretto la data di decorrenza del periodo di comporto di malattia , benché manifestasse l’intento della stessa di modificare l’imputazione dell’assenza, era da considerarsi tardivo e contrario a correttezza e buona fede. La Corte di Cassazione ha ritenuto che la sentenza impugnata è errata per aver ritenuto tardiva e contraria a buona fede la richiesta del lavoratore di imputare a ferie, anziché a malattia, una propria precedente assenza, innanzitutto perché non esiste nessuna norma di legge che prevede un termine di decadenza dell’imputazione dell’assenza del lavoratore, in secondo luogo, poiché la società, a fronte di tale rettifica, ben avrebbe potuto negare le ferie per il giorno 28.2.2005 (e, quindi, mantenere l’originaria imputazione ad assenza per malattia), ma non l’ha fatto, se non con la lettera di licenziamento del 6.10.2005, nella quale ha considerato l’assenza del 28.2.2005 come malattia, operando in modo non conforme a correttezza e buona fede, giacché aveva avuto oltre sette mesi a propria disposizione per comunicare alla lavoratrice il proprio intento di non concedere il giorno di ferie richiesto. Il mancato riscontro immediato del datore di lavoro aveva quindi indotto l’incolpevole affidamento della lavoratrice sull’avvenuta concessione delle ferie. Ad avviso della Corte è pacifico che, per evitare il licenziamento per superamento del periodo di comporto, il lavoratore possa imputare le assenze a ferie residue, ove ciò non comprometta apprezzabili interessi aziendali. Pertanto, a fronte di una richiesta del lavoratore di imputare a ferie (già maturate) un’assenza per malattia, il datore di lavoro è tenuto a prendere in debita considerazione il fondamentale interesse del richiedente ad evitare la perdita del posto di lavoro e, laddove non accolga la sua richiesta, ha l’onere di spiegarne e provarne i motivi. In sintesi, il lavoratore può sempre richiedere di imputare a ferie (anziché a malattia) le proprie assenze, con i soli limiti che si tratti di ferie già maturate e che il datore di lavoro non abbia validi motivi di ordine organizzativo o produttivo per rifiutare tale richiesta. Per tali motivi, la Corte ha cassato la sentenza impugnata.

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