Con la sentenza n. 150 pubblicata il 16 luglio 2020 la Corte Costituzionale ha definitivamente decretato l’illegittimità costituzionale del meccanismo delle c.d. “tutele crescenti” introdotto dal Jobs Act, ossia di quella modalità di determinazione dell’indennità dovuta al dipendente nelle ipotesi di illegittimità o di vizi formali o procedurali del licenziamento, rigidamente ancorata all’anzianità di servizio, seppur entro un limite minimo e massimo fissato dalla legge.
La pronuncia in commento rappresenta però solo l’epilogo di un processo di graduale revisione fino al definitivo “smantellamento” dell’automatismo delle tutele crescenti iniziato nel 2018 ad opera del Governo (con il Decreto Dignità) e proseguito poi con maggiore efficacia dalla Corte Costituzionale (con la storica pronuncia n. 194 depositata l’8 novembre 2018), del quale vale la pena brevemente ripercorrere le principali tappe per meglio comprendere la portata della recente sentenza della Consulta e gli scenari futuri che si prospettano all’indomani di tale importante pronuncia.
La riforma dell’art. 18 L. 300/1970 operata nel 2012 dalla Legge Fornero (L. 92/2012), aveva già relegato le ipotesi di reintegrazione ai casi più gravi di licenziamento radicalmente nullo (ad esempio, poiché basato su motivi discriminatori) o di licenziamenti disciplinari basati su fatti rivelatisi poi in giudizio del tutto insussistenti (oltre ad altre ipotesi residuali), prevedendo in tutti gli altri casi di illegittimità del licenziamento la sola tutela indennitaria, la cui misura era rimessa al prudente apprezzamento del giudice (al quale venivano tuttavia indicati i criteri cui fare riferimento nella relativa quantificazione). Ciò nonostante, nel 2014, il governo dell’epoca decideva di spingersi oltre.
Con la legge n. 183 del 10 dicembre 2014, conosciuta come Jobs Act, il Parlamento delegava all’Esecutivo l’adozione di uno o più decreti legislativi aventi ad oggetto, fra le altre, la “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato (…)”.
In attuazione della legge delega, il Governo emanava il D.lgs n. 23 del 2015 in cui si prevedeva, per tutti i lavoratori assunti dal giorno successivo all’entrata in vigore dello stesso (e quindi dal 7 marzo 2015), una tutela di tipo prevalentemente economico (salvi solo i casi di nullità o di assoluta insussistenza dei fatti contestati) nei casi di licenziamenti rivelatisi illegittimi per insussistenza di giusta causa o di giustificato motivo o affetti da vizi di tipo formale o procedurale. La vera novità della riforma risiedeva, tuttavia, nel meccanismo di determinazione dell’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato: a differenza del passato, infatti, il giudice perdeva la propria discrezionalità nella quantificazione in concreto dell’indennità venendo vincolato ad un meccanismo di calcolo di tipo prettamente aritmetico basato esclusivamente sull’anzianità di servizio del dipendente licenziato. Ebbene, nei casi di licenziamenti individuali affetti da vizi sostanziali (ad esempio assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo), l’indennità spettante al lavoratore dipendente da aziende c.d. “sopra-soglia” (ovvero con più di 15 dipendenti nell’unità produttiva o più di 60 a livello nazionale) era pari a due mensilità della retribuzione utile ai fini del calcolo del t.f.r. per ogni anno di servizio, entro un limite minimo di 4 mensilità ed una soglia massima di 24 mensilità.
Allo stesso modo, nei casi di licenziamenti individuali rivelatisi nella sostanza legittimi (e quindi sorretti da una valida giusta causa o da un valido giustificato motivo), ma intimati in violazione del requisito della motivazione di cui all’art. 2 della L. 604 del 1966 o della procedura disciplinare di cui all’art. 7 della L. 300 del 1970, al lavoratore di aziende “sopra-soglia” spettava un’indennità pari ad una mensilità della retribuzione utile ai fini del calcolo del t.f.r. per ogni anno di servizio, entro un floor di 2 mensilità ed un cap di 12 mensilità.
La portata della riforma appariva davvero dirompente, soprattutto per le aziende che, in relazione ai lavoratori neo-assunti, per la prima volta dall’introduzione dello Statuto dei Lavoratori avevano la possibilità di conoscere già al momento del licenziamento la misura massima del potenziale rischio di lite, con indubbi benefici dal punto di vista della pianificazione economico-finanziaria. Già allora, tuttavia, alcuni interpreti segnalavano che per effetto della riforma i giudici venivano privati di qualsiasi discrezionalità nell’adattare al caso concreto l’importo dell’indennità sanzionatoria spettante al dipendente, con l’evidente rischio di decisioni inique, certamente poco “dissuasive” soprattutto nei casi di modesta anzianità di servizio del dipendente.
Già nel 2018 le norme sui licenziamenti individuali introdotte dal Jobs Act venivano per la prima volta “intaccate” dal Governo in carica il quale, con il Decreto Dignità (D.L. 87/2018), incideva sulla misura minima (e massima) dell’indennità spettante ai dipendenti di aziende sopra-soglia licenziati in assenza di giusta causa o giustificato motivo, che passava dall’intervallo 4-24 mensilità a quello, maggiore, di 6-36 mensilità. In tal modo il Governo garantiva sì una maggior tutela ai lavoratori con bassa anzianità aziendale ma non modificava in alcun modo il rigido meccanismo delle tutele crescenti, assolutamente invariato all’esito dell’intervento normativo.
A minare l’automatismo del Jobs Act giungevano, invece, numerosi incidenti di costituzionalità che già dal 2017 iniziavano ad essere sollevati da numerosi tribunali del Paese. Ad essere rimesso al vaglio della Corte Costituzionale ad opera delle corti di merito era proprio il meccanismo di predeterminazione dell’indennità basato esclusivamente sull’anzianità aziendale, contenuto in diverse disposizioni del D.Lgs 23/2015, ossia l’art. 3 (relativo ai vizi sostanziali dei licenziamenti individuali), l’art. 4 (relativo ai vizi formali e procedurali dei licenziamenti individuali) e l’art. 10 (relativo alla violazione delle norme in materia di licenziamenti collettivi).
Ebbene, a seguito di ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma del 26 luglio 2017, la prima norma del Jobs Act ad essere sottoposta al vaglio della Consulta è stato proprio l’art. 3 del D.Lgs 23/2015. Con sentenza n. 194 del 2018 la Corte si pronunciava nel senso di ritenere la rigida modalità di calcolo basata sulla sola anzianità di servizio contrastante sia con il principio di eguaglianza – poiché omologava ingiustificatamente situazioni diverse, senza tener conto del pregiudizio concreto prodotto nei confronti del lavoratore – sia con il principio di ragionevolezza, poiché non costituiva né un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subìto dal lavoratore né un’adeguata dissuasione dell’impresa dal licenziare illegittimamente. I giudici costituzionali ripristinavano, dunque, la discrezionalità del giudice nell’apprezzare, all’interno dell’intervallo fissato dal legislatore, aspetti quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti oltre, ovviamente, a quello dell’anzianità di servizio, quale primus inter pares, conformemente alla ratio ispiratrice del Jobs Act.
La pronuncia in questione, pur producendo effetti di riflesso sulle altre norme del D.lgs 23/2015 che fanno espresso rinvio al meccanismo di quantificazione dell’indennità di cui all’art. 3 del medesimo Decreto (e, segnatamente, sull’art. 9 che disciplina le conseguenze dei licenziamenti illegittimi nelle aziende c.d. “sotto-soglia” e sull’art. 10, che disciplina le conseguenze dei licenziamenti collettivi intimati in violazione delle procedure di legge o dei criteri di scelta) non intaccava, tuttavia, il simile meccanismo di quantificazione contenuto nell’art. 4, che disciplina le differenti ipotesi di vizi formali e procedurali del licenziamento, prevedendo una quantificazione diversa nella misura (una mensilità – invece che due – per anno di servizio) e nelle soglie minima e massima (da un minimo di 2 – invece che 6 – a un massimo di 12 – invece che 36 – mensilità)
Il meccanismo di cui all’art. 4 non tardava però ad essere oggetto di due ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale ad opera del Tribunale di Bari (con ordinanza del 18 aprile 2019) e del Tribunale di Roma (con ordinanza del 3 gennaio 2020), rispetto alle quali la Consulta si pronunciava nel mese di giugno 2020, depositando le relative motivazioni il successivo 16 luglio.
Con la sentenza n. 150 del 2020 in commento, la Corte Costituzionale, specularmente alla pronuncia n. 194 del 2018, ha ritenuto che anche il meccanismo di calcolo contenuto nell’art. 4 del D.lgs 23/2015 fosse in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza e ragionevolezza. Secondo la Consulta, infatti, un criterio basato in via esclusiva sull’anzianità di servizio rende marginali i vizi formali e procedurali, svalutando oltremodo la loro funzione di garanzia dei fondamentali valori di civiltà giuridica posti a presidio della dignità del lavoratore. La Corte ha ritenuto, inoltre, che il suddetto meccanismo non fosse idoneo a compensare in maniera adeguata (specialmente nei casi di modesta anzianità di servizio) il pregiudizio arrecato al lavoratore dall’inosservanza di tali garanzie e non rappresentasse neppure una sanzione efficace adatta a dissuadere l’impresa dalla violazione delle stesse. Anche in tale sentenza la Consulta ha inteso restituire ai giudici margini di discrezionalità nella determinazione dell’indennità: pur muovendo dall’anzianità di servizio («che rappresenta la base di partenza della valutazione»), la Corte Costituzionale invita ad utilizzare altri criteri «in chiave correttiva» quali la gravità della violazione formale o procedurale (come previsto in precedenza dal sesto comma dell’art. 18 L. 300/1970, come modificato dalla Legge Fornero nel 2012), il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa e il comportamento e le condizioni delle parti.
Alcuni commentatori hanno evidenziato come nella sentenza in esame la Consulta abbia sottolineato, rispetto alla precedente sentenza n. 194/2018, la posizione di preminenza del criterio dell’anzianità di servizio su tutti gli altri (posto che nella pronuncia precedente si affermava semplicemente che «il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio (…) nonché degli altri criteri già prima richiamati»), con ciò volendo imporre alla giurisprudenza che si troverà a dare applicazione a tali principii una sorta di restraint, per evitare derive tanto “arbitrarie” quanto immotivate nella quantificazione dell’indennità spettante in concreto al lavoratore. Secondo gli stessi interpreti, infatti, deporrebbe in tal senso l’esplicita previsione, contenuta nella parte motiva, che l’apprezzamento del giudice, con riferimento ai criteri diversi dall’anzianità di servizio, debba essere «congruamente motivato».
La sentenza termina con un monito al legislatore, che suona quasi come un solenne rimprovero, a «ricomporre secondo linee coerenti la normativa sui licenziamenti, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari». Commenteremo nel paragrafo finale questo – eloquente – inciso.
All’esito della pronuncia in commento, ad oggi residua al vaglio della Consulta soltanto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 del D.lgs 23/2015 sollevata dalla Corte d’Appello di Napoli con ordinanza del 18 settembre 2019 (che ha al contempo investito della questione anche la Corte di Giustizia Europea).
Tuttavia tale ultimo giudizio di costituzionalità riguarda solo indirettamente il meccanismo delle tutele crescenti (ormai definitivamente “smontato” dalle due pronunce appena commentate) posto che esso ha ad oggetto la disparità del regime cui sono assoggettati i dipendenti coinvolti in una medesima procedura di licenziamento collettivo per il solo fatto di essere stati assunti prima o dopo il 7 marzo 2015.
Basandosi sui trend successivi alla sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale è possibile prevedere quali saranno i risvolti concreti della sentenza in commento sulle pronunce delle corti di merito chiamate a determinare l’indennità spettante al lavoratore licenziato senza l’osservanza degli oneri di forma e di procedura previsti dall’art. 4 del D.lgs. 23/2015
Occorre in primo luogo evidenziare come tali pronunce siano già oggi molto limitate nel numero rispetto a quelle attinenti ai vizi sostanziali dei licenziamenti, posto che laddove il giudice ravvisi la sussistenza di un vizio sostanziale in aggiunta ad un vizio formale o procedurale, l’indennità (oscillante tra le 6 e le 36 mensilità) prevista per tale violazione assorbe quella eventualmente spettante per il caso di soli vizi formali o procedurali.
Per quanto attiene all’importo che concretamente il giudice potrà riconoscere al dipendente, è bene tenere a mente come nel declinare l’art. 3 (così come obliterato dalla Consulta) i giudici abbiano, nella maggioranza dei casi, utilizzato principalmente il criterio dell’anzianità di servizio – nella misura indicata dalla norma prima dell’intervento della Consulta – salvo poi valorizzare anche i criteri “sussidiari” indicati dalla Consulta nella parte motiva della sentenza n. 194/2018 (e quindi il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti) al fine di adattare l’importo dell’indennità alle particolarità del caso concreto, se del caso anche riducendone la misura.
È ipotizzabile, pertanto, che lo stesso processo di determinazione dell’indennità verrà applicato con riferimento all’art. 4 (a maggior ragione considerata l’enfasi che nella più recente pronuncia viene data al criterio dell’anzianità di servizio, rispetto al quale gli altri criteri operano solo in funzione correttiva, e non concorrente) e, pertanto, l’anzianità aziendale (nella misura di un mese per ogni anno di servizio) costituirà la base di calcolo che il giudice utilizzerà per determinare di volta in volta l’indennità, valorizzando gli altri criteri “correttivi” menzionati dalla sentenza n. 150 del 2020: ad avviso di chi scrive, è facile presumere che avrà un ruolo rilevante quello della gravità delle violazioni, che costituiva, prima del D.Lgs 23/2015 (e che per gli assunti prima del 7 marzo 2015 risulta ancora applicabile ex art. 18 sesto comma dell’art. 18 L. 300/1970), l’unico criterio di valutazione utilizzabile dal giudice per calibrare l’indennità spettante al dipendente nelle ipotesi di licenziamenti viziati dal punto di vista formale o procedurale.